Capire la vita e le sue dinamiche è compito arduo. Forse, addirittura, impossibile. In quanto la vita, da sempre oggetto di analisi da parte della società, si rivela spesso imprevedibile e beffarda. Già, beffarda un po’ come l’esistenza di Maria Baldi, soprannominata Marietta, la vera protagonista dell’opera di Grazia Deledda intitolata ‘’La danza della collana’’. Un’opera significativa, uscita nel 1924 per Treves e che nel 2024 ha celebrato i cento anni dalla sua pubblicazione. Un’opera che testimonia appieno la maturazione della scrittrice nuorese, a cui due anni dopo fu conferito il Premio Nobel per la Letteratura assegnatole il 10 dicembre del 1927, che le consente di sondare nuove vie senza però dimenticare alcuni elementi cardine della sua narrazione come, ad esempio, il peccato e la colpa.
Proprio il peccato e la colpa, da sempre due grandi topoi della narrativa deleddiana, sono i tratti caratteristici di un romanzo che, seppur accolto in maniera non particolarmente entusiasta dalla critica dell’epoca, sa offrire spunti di riflessione e nuove chiavi di lettura portate avanti dalla Deledda. Peccato e colpa, in apparenza due concetti che sanno di condanna ma al contempo un’occasione per creare dei flussi di coscienza in cui l’animo umano viene messo completamente a nudo. Mettersi a nudo destreggiandosi tra angosce e sensi di colpa che, probabilmente, non avrebbero nemmeno motivo di esistere ma che segnano profondamente Maria Baldi – zia della giovane nipote omonima – su cui la Deledda focalizza in maniera crescente la sua attenzione di narratrice consentendole così di spiccare rispetto agli altri personaggi dell’opera, fa i conti giornalmente, finendo per chiudersi sempre più in se stessa, non riuscendo di conseguenza a comunicare ciò che ha veramente dentro di sé. Se questi due aspetti sono centrali nel corso della narrazione, un terzo fattore essenziale è costituito dalla riflessione sul tempo che passa e, ancora una volta, è proprio Maria a farsi portavoce di questa analisi: una analisi lucida e spietata sul tempo che scorre, sul fatto che la bellezza sia effimera, sul fatto che l’esistenza è fatta anche di carnalità e di un materialismo che riguarda tutti, persino gli animi più nobili.
Peccato, sensi di colpa, il tempo che passa: ne ‘’La danza della collana’’, però, c’è un altro tema che spicca ed è quello della fiducia. O meglio, della incapacità di fidarsi gli uni degli altri, a causa di una diffidenza neanche troppo latente che viene esemplificata da Maria la quale, a causa di questa diffidenza nei confronti del prossimo, non riesce ad aprirsi, non riesce a vivere un amore che brama e si rivela incapace di lasciarsi trasportare dai sentimenti. A differenza della nipote omonima che, rifacendosi al titolo dell’opera, ‘’danza’’ leggera verso ciò che la vita le offre senza pensare alle conseguenze.
Se è vero che, in linea di massima, i titoli di un’opera letteraria descrivono in buona parte ciò che si troverà all’interno di un libro, in questo caso la verità sta nel mezzo: Perché questo? Perché la collana è sì un elemento centrale nella struttura narrativa ma è dietro quel ‘’danza’’ che si cela il significato più intimo dell’opera. Infatti, la collana di cui si parla, custodita dalla zia di Maria tanto da esserne ossessionata un po’ come l’affascinante e ambiguo conte Giovanni Delys il quale la ricerca dopo che la madre ha dovuto darla in pegno al padre della nipote omonima di Maria per cercare di risollevare le disperate sorti finanziarie della propria famiglia, porta i tre personaggi dell’opera – ovvero la zia, la nipote e il conte – a muoversi costantemente senza però mai allontanarsi del tutto gli uni dagli altri e senza mai approdare a una meta definitiva, dando vita a un ballo a tratti frenetico, a tratti statico che si nutre di rimpianti, di frasi non dette o pronunciate a metà e di silenzi. Quei silenzi che non si possono riempire con promesse vacue e con speranze che poi, in un modo o nell’altro, verranno disattese.
Quei silenzi che caratterizzano il romanzo e che si tramutano in equivoci. Un esempio su tutti? Indubbiamente la scelta della giovane Maria di non dire al conte Delys, suo futuro marito presentatosi nella sua abitazione in cerca della zia per l’acquisto del loro terreno, di non essere la Maria che lui cercava ma un’altra, ovvero quella nipote che la zia, incapace di volerle bene, definisce come una bambina. Una bambina di cui si è presa sì cura, tenendo fede alla promessa fatta a suo cugino ovvero il padre di Maria quando si trovava in punto di morte, ma che non è riuscita mai ad amare, arrivando a provare gelosia nei suoi riguardi. Una gelosia che non sfocia mai in aperta acredine e in una cattiveria esplicita ma che traspare ugualmente dalle sue parole, dai suoi monologhi interiori, oltre che dal confronto continuo che fa con sua nipote la quale, a differenza sua, è nel pieno degli anni e vede il futuro in maniera decisamente più rosea. Sino a quando, anch’essa, come per una sorta di legge del contrappasso si ritroverà ad accorgersi che l’uomo di cui si è invaghita e che ha sposato altro non è che un dissipatore abile nel dissimulare e nel far credere ciò che gli conviene per ottenere i propri fini.
La zia, la nipote e il conte: tutto gravita attorno a essi e al loro modo di relazionarsi. Traspare nitidamente dalle pagine il sentimento di attrazione che la zia prova verso Giovanni Delys ma l’autrice è abile nel non far sfociare il tutto nel classico menage a trois che nulla avrebbe aggiunto a un romanzo perfettamente in bilico tra astrazione e concretezza, tra sogno e una realtà dai contorni apparentemente poco chiari ma in verità più definiti di quanto si possa immaginare a una prima lettura. Come scritto nella approfondita prefazione di Giovanni Pirodda nella riedizione targata ILISSO del 2007 costituita da 136 pagine e arricchita da una suggestiva copertina realizzata da Mario Mossa de Murtas con un ritratto di Francesca Mancaleoni, l’opera “vuole rappresentare nella sua essenzialità la vita nuda, il carattere illusorio delle passioni e delle ambizioni dell’uomo, di tutto ciò verso cui l’uomo tende”.
Ambizioni di cui la zia di Maria ha timore, assuefatta com’è dai tanti sacrifici fatti, ambizioni che invece offuscano la vista del conte Delys, ambizioni altrui di cui è in balia la giovane Maria che sembra non riuscire mai a distaccarsi da un’immagine di se stessa ingenua e in parte lasciva. L’opera non presenta la classica fine risolutiva o comunque netta e la sua conclusione si presenta aperta alle più svariate interpretazioni: dopo essersi convolati a nozze, il conte Delys e Maria hanno una bambina, che si scoprirà essere cieca. La zia, nel momento in cui andrà a trovarli nella loro abitazione seppur malvolentieri e con notevole patema interiore, quasi a voler chiudere un cerchio decide di posare nella culla della loro figlia ancora in fasce quella collana origine di tanti fraintendimenti e di tante scelte di cui non si comprende la ragione.
Eppure, anche dopo averlo fatto, non riesce a sentirsi libera, non riesce a espiare quel peccato per cui si sente in colpa senza nemmeno averlo realmente commesso. Perché questo? Rispondere non è certo semplice ma osservando le vicende dei tre personaggi si intuisce una verità amara con cui, talvolta, si è costretti a fare i conti: ci sono ferite che non si rimarginano, conti che rimarranno aperti per sempre e demoni i quali, per quanto li si cerchi di ignorare, è impossibile non dare ascolto prima o poi, anche a caro prezzo.