Non c’è da stupirsi se “Le otto montagne” abbia vinto quattro David di Donatello, tra cui quello di miglior film (gli altri sono miglior sceneggiatura non originale, autore della fotografia, suono). La pellicola scritta e diretta da Felix Van Groeningen e Charlotte Vandermeersch ispirata all’omonimo romanzo di Paolo Cognetti (premio Strega 2017), è forse uno di quei pochi casi in cui la storia portata sul grande schermo non fa storcere il naso – per non dire provocare un travaso di bile – a chi aveva già letto il libro.
Chi ha visto il film lo sa. E sono molti quelli che lo hanno guardato, visti gli incassi al botteghino. Anche questo è un caso, perché quando si parla di montagna a “tirare” è una storia dove l’adrenalina, la tensione, la sfida, l’impresa alpinistica la fanno da padrona. Qui invece a imporsi è la dolcezza, la tenerezza di un rapporto di amicizia tra due uomini, le parole pesate, dense di significati, i silenzi. La vita, con le sue gioie e le sue tragedie, e la morte.
Sono questi i sentimenti che rimangono incastonati tra i graniti e scisti delle Alpi della Valle d’Aosta. È questo che spinge Pietro, uno dei protagonisti interpretato al solito magistralmente da Luca Marinelli, a tornare sulle sue montagne dove riesce a ritrovare se stesso, a guarire le ferite.
È questo che costringe Bruno – Alessandro Borghi – a restare, imprigionato nella paura, nel senso di insicurezza, di inadeguatezza, che diventa terribile dopo un fallimento.
Sono sensazioni e stati d’animo profondi, sacri, quelli che racconta questo film. Quelli a cui quotidianamente guardiamo solo distrattamente, spinti da una società che va sempre più veloce e si nutre di emozioni fugaci, da scrollare sul telefono, di reel in reel, di commento in commento. Eppure è quello di cui ci sarebbe bisogno. Il pubblico se ne è accorto e lo ha premiato. Ad accorgersene sono stati anche i giurati del David, con buona pace dei recensori del New Yorker.
È forse per questo che è piaciuto così tanto “Le otto montagne”, perché rivela l’essenza e la bellezza della vita. Ci mostra quello che vorremmo essere e che riusciremmo a diventare se solo ci togliessimo di dosso tutte le infrastrutture che ci imprigionano in una cella dorata e sbrilluccicante. Bigiotteria che copre il tesoro che ognuno di noi, se curasse un po’ di più la propria anima, è.
“Le Otto montagne” è un film – e un libro – fatto di sottrazioni, di essenza. E forse proprio per questo racconta l’anima della montagna, di tutte le montagne, molto meglio rispetto a qualsiasi altro film sull’alpinismo. Perché la montagna è fatta di silenzi, di introspezione, di lunghe scrutate dentro se stessi e del luogo in cui si è immersi, dove tutto è perfetto, in equilibrio, dove tutto ha un senso, tutto è concreto, anche la salita che sembra spianare ma poi non spiana mai ha un significato e probabilmente è far apprezzare quello che si raggiunge, una vetta, un panorama, una sfida, la pace con noi stessi. Non importa cosa, quel che conta è che rimarrà sempre impresso nel cuore. Un luogo dove non esiste la natura, dove ogni cosa ha un suo nome ed è inserita in un universo conosciuto, come ricorda Bruno agli amici che Pietro porta con sé dalla città.
In un film fatto di sottrazioni, il grande valore aggiunto lo hanno portato due giganti come Luca Marinelli e Alessando Borghi. Due attori che ogni volta che appaiono sul grande schermo, film dopo film, dimostrano che è possibile raggiungere vette sempre più alte, giusto per rimanere in tema. La loro interpretazione è a dir poco commovente. E infatti il pubblico in sala, spesso si è commosso alla fine del film. E non solo per la storia, straziante e dolcissima. Come una poesia, appunto.