Alla fine del diciannovesimo secolo, quando la Sardegna viveva uno dei più drammatici decenni della sua storia, era alquanto semplice finire dietro le sbarre o fra le liste dei latitanti. Talvolta bastava un furto di poco conto per passare qualche tempo in carcere o il sospetto di reati contro la proprietà per garantirsi cinque anni di soggiorno al confino nelle isole del Tirreno. Fu l’accusa di un furto di mandorle da parte di un maggiorente di Orosei a far sì che Giovanni Lutzu si desse alla macchia. Cominciava così la vita da bandito, che fra molteplici reati e propositi di vendetta per i delatori alimentava il curriculum malavitoso che non contemplava affatto avventure romantiche o leggendarie prodezze da tramandare ai posteri, ma gesta di veri e propri “figli di puttana” che sparavano soltanto alle spalle e che terminavano la loro carriera sempre allo stesso modo. Con la galera o con la morte.

A sentire Niceforo, Lombroso e altri discepoli del positivismo dell’epoca, le cause dei fenomeni criminali e del banditismo sardo andavano cercate nella predisposizione genetica di gran parte degli abitanti dell’isola, con particolare evidenza nelle popolazioni della Barbagia e dell’Ogliastra. Stretta fra queste due regioni e la valle del Cedrino, non doveva fare eccezione la bassa Baronia.
Neppure l’inchiesta Pais-Serra del 1894 servì a far aprire gli occhi alla classe dirigente liberale. I governi italiani non videro o non vollero vedere il reale problema dal quale scaturiva la recrudescenza di fenomeni malavitosi, che traevano principalmente origine nelle miserevoli condizioni socio-economiche che flagellavano la Sardegna di fine secolo.
Orosei e gli altri comuni baroniesi rappresentavano eloquentemente lo stato disastroso nel quale versava la popolazione isolana. La mancanza di collegamenti ferroviari e di condotte mediche regolari, l’analfabetismo, le precarie condizioni lavorative di contadini, allevatori e piccoli proprietari caratterizzano quel periodo di grandi incertezza. Nella valle del Cedrino erano garantite soltanto miseria e malaria. Le classi più povere, ovvero la maggior parte delle popolazioni, non riuscivano neppure a pagare le quote minime d’imposta, ma nell’esattoria ben poco se ne preoccupavano e non esitavano a mettere all’asta le case e i terreni. Nel 1896 nella sola Orosei, che all’epoca contava poco più di duemila anime, venivano preposti per l’esproprio 130 stabili. A questi si sommavano i 70 di Irgoli, i 71 di Onifai e i 57 di Loculi. Il culmine della situazione si era raggiunto a Galtellì nel 1893, quando finirono sul bollettino degli annunzi legali della prefettura di Sassari gli stabili di 500 contribuenti insolventi. Praticamente l’intero paese.
La fame vera arriva nel 1898 quando la situazione comincia a farsi veramente allarmante e parecchie famiglie di Orosei sono costrette per diverse settimane a cibarsi esclusivamente con erbe di campo. Giovanni Lutzu è un giovane di 25 anni e non ha minimamente intenzione di morire di stenti come il compaesano Giommaria Dalu e cerca di arrangiarsi attraverso piccole ruberie a danno di alcuni notabili. In seguito a una denuncia presentata dal possidente e medico condotto del paese, il dottor Giuseppe Porru, per un furto di mandorle, il Lutzu, incriminato, si da alla macchia e da quel momento lo scopo principale della sua esistenza diventa quello di vendicarsi del medico e della sua famiglia.

Comincia cosi, armato di fucile a retrocarica, rivoltella e stiletto, la sua vita errante per la campagna, dove più volte danneggia le proprietà dei Porru e con le incursioni in paese, dove semina il terrore fra la popolazione affiggendo alcuni manifesti nei quali intima : “Avverto con questo avviso che espongo in piazza, che se qualcuno si azzarda ad andare a servizio del mio nemico possidente, avrà a che fare con la mia arma”. La svolta arriva nel 1899 quando il latitante decide che il dottor Porru deve morire. Da qualche tempo cerca di tendergli un agguato mentre si reca per le visite domiciliari nella vicina Onifai. L’occasione propizia si presenta il 3 gennaio quando il Lutzu si appiattisce fra i tamerici e gli oleandri posti frontalmente a Conca ‘e Columbos, ai fianchi del monte Tuttavista nella regione appellata Guado Onifai, a pochi passi dalla strada nazionale e dal fiume. Intorno alle 17 il medico accompagnato dal figlio, l’avvocato Giovanni, sta facendo ritorno a Orosei. Il latitante apre il fuoco e fra grida e minacce, lancia le sue fucilate sui malcapitati riuscendo soltanto a ferire Giovanni a una mano e il cavallo del dottore alla testa.
Il 12 febbraio il giovane “dalla barba nera e dallo sguardo sinistro, ruvido, tozzo nella persona e zoppo di un piede” – così lo descrive la stampa dell’epoca – ci riprova. Questa volta si reca direttamente in casa dei Porru – Vardeu, dove, nascosto nella legnaia, spara a colpo sicuro sull’avvocato Giovanni che si salva per miracolo, riportando soltanto una ferita al braccio destro. L’ennesimo attentato induce il consiglio comunale a richiedere con urgenza un contingente di truppa per dare la caccia al Lutzu sul quale viene posta una misera taglia di duecento lire. Il governo acconsente e spedisce in Baronia una trentina di soldati comandati da un ufficiale, che hanno l’ordine di perlustrare il paese e la zona della Marina dove pare che il bandito si aggiri con frequenza.
C’è però una novità. Il Lutzu non è più solo e batte la campagna assieme a un giovinetto di appena 16 anni, Giuseppe Piras da Mamoiada e a un altro uomo che i carabinieri conoscono molto bene, il trentenne Giuseppe Pau, noto “Paeddu”, da Oliena. Il primo è accusato di tentato omicidio commesso in località Sa Tanca de su Buscu nei confronti del compaesano Salvatore Cadette il 16 marzo. Sul secondo invece pesano ben 14 capi d’imputazione e una taglia da 8000 lire. Allevato alla scuderia d’abigeatari del compaesano Giovanni Corbeddu Salis, “il re della macchia”, vanta nel suo curriculum la frequentazione dei maggiori latitanti dell’epoca, fra i quali Antonio Mulas, “su bellu de Uliana”, ucciso poche settimana prima dai carabinieri in un agguato nel quale il Pais è riuscito a scappare rimanendo illeso.

ll 20 marzo il Lutzu si reca ad Oliena assieme al Pais, con il quale uccide tale Vincenzo Angheleddu, reo di aver riconosciuto il Mulas durante l’autopsia, sfigurandone e lacerandone il cadavere. Il 29 è la volta di Luigi Moro da Mamoiada che viene ucciso dai latitanti per vendetta in località Piriccone, a pochi passi dal centro abitato, sgozzando l’intero gregge al quale accudiva.
Prima che il sole tramonti Piras, Lutzu e Pau si allontanano verso il confine con Dorgali. Intanto al brigadiere Priamo Cau della stazione di Orosei arriva una soffiata che lo informa della presenza dei ricercati nella zona di Campu ‘e Domestiches. Cau organizza un drappello composto dai carabinieri Corrias, Perra, Porcu, Lecci e Floris portandosi nottetempo nella summenzionata località. Il terzetto viene intercettato immediatamente e sebbene colto di sorpresa, ingaggia un rapido e violento conflitto a fuoco con i gendarmi. Giovanni Lutzu cade fulminato dalle fucilate dei carabinieri di Cau. Gli altri due, benché feriti, riescono a scappare.
Giuseppe Piras viene catturato il 22 aprile successivo e una volta incarcerato diviene oggetto di studio per il medico lombrosiano Giuseppe Sanna Salaris, direttore algherese del manicomio di Monte Claro a Cagliari. “Paeddu” si unisce a un suo vecchio compagno di ventura di Dorgali, Vincenzo Fancello noto “Berrina” e ai fratelli Serra Sanna di Nuoro morendo il 12 luglio assieme a quasi tutti i suoi compagni, sotto il piombo dei carabinieri e dei militari nel conflitto di Morgogliai in agro di Orgosolo. L’operazione tanto cara al Giulio Bechi di ‘Caccia Grossa’ pone simbolicamente fine all’epoca “leggendaria” dei banditi del nuorese. I problemi invece no, quelli rimarranno per molto tempo. Ancora una volta i governi, come troppo spesso è accaduto nella recente storia isolana, cercheranno di risolverli con la truppa e con la repressione, alimentando periodicamente quelli vecchi e creandone di nuovi.
Quasi tutti i protagonisti di queste vicende avevano cominciato le loro poco onorabili carriere con piccoli furti o con l’abigeato, instradandosi in un cammino di sola andata che a un certo punto arrivava sempre allo stesso bivio: la cella o il camposanto. Cammino che molti ragazzi, spesso ancora minorenni e guidati, assoldati e protetti, fin quando conveniva, da distinti signori che accudivano comodamente al loro peculio dal palazzotto del paese, preferirono alla miseria più nera. E in tutto questo non c’era alcun consapevole sentimento di ribellione, né tantomeno un’ aura di romantica e leggendaria “balentia”, che spesso vi si vuole trovare. C’era soltanto istinto di sopravvivenza a qualsiasi prezzo, con un finale già scritto, per tutti quanti.