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Cicitu Masala e ”Il parroco di Arasolè”, un monologo interiore che mostra le fragilità dell’animo umano e la bellezza degli sconfitti

Di Mattia Lasio
18/10/2025
in Cultura, Libri
Tempo di lettura: 4 minuti
Cicitu Masala e ”Il parroco di Arasolè”, un monologo interiore che mostra le fragilità dell’animo umano e la bellezza degli sconfitti

Vinti e vincitori. Si cerca da sempre di suddividere la società e le persone che la compongono in queste due categorie. Categorie che, solitamente, sembrano impenetrabili. Chi appartiene alla prima non può compiere il tanto agognato salto di qualità che ne sancirebbe la meritata riscossa, quasi si fosse destinati eternamente a scontare una pena di cui non si conosce la natura che impedisce di avanzare in questo cammino spesso tortuoso che è la vita. Vinti e vincitori, proprio così: i primi destinati a patire, i secondi sempre intenti a sorridere beffardi davanti alla fatica spesso disumanizzante dei primi. 

Vinti, sconfitti, bistrattati e persino umiliati a volte che Cicitu Masala, uno degli scrittori e intellettuali di maggior rilievo della cultura isolana e non solo di cui il 17 settembre del 2016 si è celebrato il centenario della nascita, ha tributato e descritto con quella sagacia e brillantezza di pensiero che lo hanno accompagnato sino all’ultimo dei suoi giorni, il 23 gennaio del 2007, in una delle sue opere più significative ovvero ‘’Il parroco di Arasolè’’ – pubblicato a metà degli anni Ottanta con il precedente titolo de ‘’Il Dio petrolio’’ da Edizioni Castello e successivamente ripubblicato con il titolo attuale nel 2001 per la casa editrice Il Maestrale. Queste le sue parole a riguardo: “Se è vero che i vinti non lasciano nulla negli archivi, cioè che sono parlati ma non parlanti, è altrettanto vero che sono essi, i vinti, formiche silenziose, muratori senza nome, a costruire e demolire, dalle fondamenta, la storia dei vincitori”.

È uno dei passi più significativi di un libro che rappresenta uno delle pietre miliari della letteratura sarda, talvolta non considerata a dovere visto il rilievo dei contenuti espressi al suo interno in cui è già possibile scorgere l’invettiva indirizzata all’affermarsi dell’industria petrolchimica in Sardegna che avrebbe preso piede anni dopo una volta presa coscienza dei danni da essa provocati. Il periodo in cui la narrazione si svolge è quello dell’eclisse solare avvenuta il 15 febbraio del 1961, il luogo in cui le vicende avvengono è quello di Sarrok, questa la grafia che Masala usa per indicare Sarroch dove quattro anni dopo entrerà in funzione la raffineria della Saras voluta da Angelo Moratti e inaugurata nel 1966 in presenza dell’allora ministro dell’industria, commercio e artigianato Giulio Andreotti. A raccontare i fatti tramite un diario personale nevrotico, linguisticamente altalenante tra un registro colto – dove non mancano i latinismi talvolta anche stravolti – e uno decisamente più scurrile, un parroco di nome Don Adamo che versa in una profonda crisi esistenziale e dall’alto del campanile della basilica in cui è appena approdato dal suo paese natale Arasolè – dietro cui si cela il luogo in cui è nato Cicitu ovvero Nugheddu San Nicolò in provincia di Sassari – racconta i suoi tormenti interiori. Tormenti che danno vita a quella che, ironicamente lui stesso definisce come “eclisse esistenziale”.

Il monologo interiore di Don Adamo tocca vari punti, tutti di estremo interesse e impatto: ad esempio, si riflette sulla solitudine che trasforma persino un angelo in un verme, così come si definisce il pensiero che pensa se stesso come un cane che morde la propria coda, incapace al netto di tutto di adempiere al proprio compito di creare un dibattito costruttivo. Don Adamo, definito come un uomo che pur essendo sacerdote non crede ai miracoli, parla dell’alienazione degli operai del neonato polo petrolchimico di Sarrok e di quella dei pastori di Arasolè. L’intera opera, talvolta in maniera più netta a tratti più sfumata, gravita costantemente attorno al confronto tra queste due realtà profondamente diverse e agli antipodi eppure accomunate da un profondo senso di solitudine angosciante. Il flusso narrativo resta sapientemente in bilico tra sogno e realtà e proprio ai sogni Cicitu Masala dedica una riflessione degna di nota: “Anche le emozioni che proviamo nei sogni appartengono alla nostra vita, sono esistenti nel tempo e nello spazio. Noi possiamo, sepolti nel sottosuolo illimitato dei sogni, rifare il passato, costruire il futuro, dilatare i nostri stati d’animo, essere come il grano, insomma, che ha l’esile stelo fuori, alla luce, ma ha le radici, la matrice, sotto, al buio, nel ventre della terra”. 

I sogni diventano un rifugio, così come il silenzio definito come “il miglior modo d’intendersi” in un mondo dove regna sovrana una incomunicabilità al di là di cui non si riesce ad andare, pur parlando – apparentemente – la stessa lingua. Il silenzio, però, non ha solo un’accezione positiva ma anche decisamente negativa nel momento in cui si tramuta in asservimento. A questo punto della sua riflessione il protagonista Don Adamo non risparmia nessuno, né la chiesa di cui fa parte e che ritiene come ignava alleata di chi sta al poter né, tantomeno, a se stesso definendosi “un fariseo, un ipocrita del Sinedrio, un sepolcro imbiancato, un mercante del Tempio”. Con ironia sagace Don Adamo dà sfogo a tutte le sue nevrosi, interpreta l’arte come il luogo più adatto per raccontare i propri peccati, si fa beffe di capisaldi della filosofia come Cartesio e il suo cogito ergo sum rielaborandolo in coito ergo sum nel momento in cui parla della passione carnale e dell’atto sessuale tra un uomo e una donna, considerata come un’àncora di salvezza per salvarsi dalla solitudine e dal terrore della esistenza. 

Le domande, alla fine di queste cento pagine e poco più brillanti e argute, sono più che lecite: chi è Don Adamo? Cosa rappresenta? Si sente realmente un testimone della fede oppure è solo un uomo codardo in preda alle proprie titubanze e incertezze? Forse, andando oltre gli interrogativi che è inevitabile  porsi, basta affidarsi alle parole espresse a riguardo da Masala sul finire dell’opera in cui Don Adamo viene descritto come una persona che desidera e, allo stesso tempo, teme di volare e di cadere. Un’eterna contraddizione la sua che riguarda tutti e non esclude nessuno sin dall’alba dei tempi. Don Adamo è l’impersonificazione del dubbio e al contempo l’anelito verso un domani migliore: un domani di cui nulla si conosce ma verso cui rivolgere lo sguardo è fondamentale in quanto ognuno di noi, come scritto saggiamente da Cicitu Masala, è un chicco di grano che germoglierà chissà quando e chissà dove. Non resta che attendere e godersi il cammino. 

Crediti: La foto di copertina nella quale compare Cicitu Masala è stata scattata da Daniela Zedda. La foto appartiene all’Archivio Daniela Zedda.

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