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Àrbores, o della rinascita dopo la deforestazione. Il film di Francesco Bussalai racconta la storia perduta degli alberi

Docufilm sul disboscamento della Sardegna e sulla resistenza della natura

Di Mario Gottardi
03/12/2022
in Ambiente, Cinema
Tempo di lettura: 7 minuti
Backstage di Àrbores

Lecceta del Monte Ortobene, riprese di Arbores. Credit: Francesco Bussalai

C’era una volta una terra ricca di fiumi, torrenti, con tanta acqua, fresca.

C’era una volta un’isola rigogliosa. Dove prosperavano terreni fertili, dove gli animali avevano di che vivere e ripararsi.

E poi c’è stata la speculazione.

Ci sono stati gli interessi privati di pochi che hanno prevalso sugli interessi collettivi di tutti.

C’è stato il colonialismo.

C’è stata la scure, impietosa. 

C’è una terra dove tutto è pietra, granito e calcare.

Una terra brulla, secca.

Ed è in queste zolle arse da un sole che picchia sempre più forte e sempre più a lungo, che la natura ci ricorda come l’uomo, anche se feroce e predatore, è piccolo al suo cospetto. E che lei, piano piano, può riprendersi tutto. Perché si adatta, si adatterà sempre, anche quando l’uomo su questa Terra, non ci sarà più.

Àrbores

Questo sembra sia il messaggio più profondo di ‘Àrbores‘ il film di Francesco Bussalai (produzione Terratrema, 2021), che racconta della deforestazione in Sardegna e di come gli alberi possano lentamente ricrescere, a dispetto dell’uomo. Il documentario in questi giorni partecipa a “Passaggi d’autore – Intrecci mediterranei”, il festival del corto mediterraneo giunto alla sua diciottesima edizione (qui, qui e qui gli articoli dell’edizione 2021) che si apre sabato 3 dicembre a Sant’Antioco, con proiezioni fino al giorno dell’Immacolata.

Arbores, manifesto
Arbores, locandina

Àrbores ha radici profonde, lontane. Nasce per colmare la curiosità e la necessità di fare qualcosa dopo che Bussalai legge il libro di Fiorenzo Caterini, “Colpi di scure e sensi di colpa” (Carlo Delfino editore, 2013, 288 pagine, 19 euro) che ricostruisce la storia del disboscamento in Sardegna, in particolare quella dell’Ottocento, quando l’isola subì una vera e propria deforestazione capillare. Forse il più grande episodio di colonialismo patito dalla Sardegna per mano dei Savoia. Un’azione predatoria che ha portato con sé il sapore rancido della beffa: le travi ricavate da tronchi secolari sardi furono utilizzate principalmente per le traversine delle ferrovie che collegavano città e paesi di un “continente” che in quegli anni viveva la sua industrializzazione. Una ferrovia che la Sardegna non ha mai conosciuto, nemmeno nel secolo successivo. Tant’è che Nuoro, città che ha dato i natali al regista, ancora oggi non è collegata né con la capitale dell’isola, Cagliari, né con l’altra città sede aeroportuale, Olbia. Unico capoluogo di provincia della Repubblica italiana a non essere collegata con altre città da una ferrovia.

Di questa storia così atroce, mortificante, Bussalai ne rimane suggestionato, tanto da volerci fare un film. Per denunciare quanto accaduto, una storia che ancora in pochi conoscono, ma soprattutto per raccontare la speranza, la rinascita del bosco dopo la scure e il fuoco dell’uomo.

E parte dalla sua Nuoro, dal suo “monte”, come i nuoresi chiamano amorevolmente l’Ortobene. Qui, dove il regista passa la sua infanzia. Qui, dove torna dopo aver vissuto a Cagliari e girato il mondo. Sono questi animali, questi panorami, questi alberi, che hanno ripreso possesso del territorio, nonostante l’azione devastatrice dell’avarizia, a cui Bussalai dà voce e anima. È qui che permette di entrare con ‘Arbores’.

Àrbores e il suo linguaggio

Di entrare, sì, perché il suo docufilm, Àrbores, non va solo visto, va proprio vissuto, tante sono le suggestioni e gli stimoli sensoriali che provoca. A iniziare dai suoni del bosco, un vero e proprio respiro che il regista ha saputo catturare.

Sono molteplici i linguaggi che il regista fonde in un unico ‘corpus’.

Àrbores
Panorama del Monte Ortobene

C’è l’elemento onirico con i racconti di Grazia Deledda di “Colpi di scure”, che mischia sapientemente fatti storici reali con la finzione del racconto. “Di giorno in giorno, d’ora in ora, i colpi di scure risuonano più vicini e più forti, mentre tutta la foresta si copre di fiori dorati, e il vento di giugno si fa più caldo e odoroso. Mai la foresta fu più bella e fiorita: forse sente giunta la sua ultima primavera e vuole inebriarsi dei suoi tepori e delle sue fragranze, per dimenticare che la morte si avanza”. E oniriche sono anche le immagini in chiaroscuro che riprende in silenzio Bussalai, per restituire sul grande schermo – dove i film vanno visti – tutto l’incantesimo di un bosco.

C’è poi l’elemento storico. Con Antonio Gramsci “L’isola di Sardegna fu letteralmente rasa al suolo come per un’invasione barbarica. Caddero le foreste che ne regolavano il clima e la media delle precipitazioni atmosferiche”. Con il deputato del Regno di Sardegna, Giuseppe Siotto Pintor, che già nel 1836 ammoniva: “Persistendo nell’attuale sistema di distruzione, correranno pochi anni ancora, e poi resterà soltanto la dolorosa memoria delle nostre dense boscaglie”. E ancora con lo stesso Caterini.

C’è la memorialistica, con i ricordi personali di Gavina Mattu Chironi, moglie di Prededdu, a Nuoro indimenticabile proprio per la sua passione per l’Ortobene e per la sua casa museo, di Nicola Porcu, il guardiano del “monte”, dove ogni giorno saliva per ripulirlo della sporcizia più volgare ed evidente, e infine la famiglia Manca-Ciusa, con Gianmario e Donatella e i loro figli Giulia e Giacomo, che con i boschi che cingono il monte hanno un rapporto strettissimo e duraturo.

C’è l’elemento linguistico, con Massimo Pittau, linguista nuorese, scomparso nel 2019, che azzarda l’origine dell’etimo Ortobene, secondo lui, “ricco di sorgenti” (effettivamente se ne contano svariate decine).

Un frame di Àrbores con Sainkho Namtchylak. Credit: Francesco Bussalai

C’è l’elemento spirituale con Sainkho Namtchylak, elegante musicista e cantante della repubblica ex sovietica di Tuva, territorio della Siberia meridionale al confine con la Mongolia, che al regista ha fatto dono, oltre che della sua musica, anche della sua esperienza spirituale e del suo rapporto intimo, e perciò prezioso, con la natura. “Il suo è un modo di sentire la natura che si avvicina molto a quello dei sardi”, sottolinea Bussalai. “Gli alberi racchiudono gli spiriti degli antenati, i grandi alberi da noi li chiamano ‘babai mannu’ – grande padre”. 

E dev’essere così, perché Sainkho con la sua presenza, con le sue parole, con i suoi gesti ricorda a tutti che pur parlando diverse lingue, pur avendo diverse sfumature di colore sulla pelle, negli occhi, nei capelli, siamo tutti abitanti di un unico luogo, la Terra, a cui dobbiamo la nostra sopravvivenza, a cui dobbiamo tutto. 

Il contesto e la tecnica

Àrbores, docufilm di Francesco Bussalai
Bussalai durante le riprese sul Monte Ortobene (Credit: Francesco Bussalai)

È un lavoro complesso, durato anni quello di Bussalai. “Quello che ho raccontato è una storia nata prima dei mezzi di riproduzione delle immagini: la fotografia è di metà Ottocento e i primi fotografi che arrivano in Sardegna vedono già una Sardegna deserta. Non c’è pittura naturalistica di quegli anni. Chi ha raccontato queste storie è stata Grazia Deledda, venti, trent’anni dopo che sono successe, come nel racconto ‘Nostro padrone’. Ed è un argomento che lei conosceva bene, visto che il padre di mestiere tagliava i boschi, gli alberi”. Ed è per questo che la ricostruzione storica, la ricerca delle immagini d’epoca, come le foto del linguista e antropologo Max Leopold Wagner, e la registrazione delle immagini e dei suoni ha richiesto molti anni per essere come il regista voleva che fossero.

Ad esempio, le immagini notturne sono state realizzate solo con la luce della luna e con la macchina a infrarossi, “per non disturbare la natura e gli animali”. Una dimensione onirica ricercata da Bussalai per omaggiare la premio Nobel nuorese, cercando di interpretarne visivamente e sonoramente l’atmosfera dei suoi racconti.

Il futuro

Il film, uscito a ottobre 2021, continua la sua corsa. Oltre che nei festival, come Passaggi d’Autore di Sant’Antioco, anche e soprattutto nelle scuole. “I ragazzi sono stati la sorpresa più grande, perché sono molto attenti, partecipi, sensibili. Hanno mostrato interesse per una storia ancora non raccontata come dovrebbe”. Un futuro per un’isola che i ‘grandi’ hanno trattato e continuano a trattare molto male? “Io sono ottimista. Cambiare la testa dei grandi è sempre più complicato”.

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