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Quando la lingua sarda può aiutare un innocente. Le perizie di Antonio Ignazio Garau nel caso Beniamino Zuncheddu

Di Gianfranca Orunesu
10/02/2024
in Comunicazione e società, Interviste
Tempo di lettura: 4 minuti
Quando la lingua sarda può aiutare un innocente. Le perizie di Antonio Ignazio Garau nel caso Beniamino Zuncheddu

Chi frequenta o anima il movimento linguistico conosce ‘sas fainas’ di Antonio Ignazio Garau di Villaurbana: operatore linguistico di sportello di lungo corso, traduttore e interprete, giornalista che contribuisce a forgiare uno stile narrativo con la nostra lingua. Ma c’è di più. Nei momenti successivi all’assoluzione di Beniamino Zuncheddu, 33 anni in carcere da innocente, grazie al processo di revisione, Garau ha potuto svelare la sua attività di perizia linguistica, trascrittiva e traduttologica proprio in quella vicenda, contribuendo alla causa di un uomo ora libero nella sua Burcei.

Iniziamo parlando di come nasce e si sviluppa il suo contributo linguistico nella vicenda che ha coinvolto il signor Beniamino Zuncheddu.

Curavo le attività dello sportello linguistico della Procura della Repubblica di Oristano quando gli uffici mi segnalarono una non meglio precisata richiesta di perizia linguistica riguardante il sardo nell’ambito di un procedimento penale in corso presso la Corte d’Appello di Roma. Senza sapere alcunché sul caso specifico, diedi la mia disponibilità. Dopo qualche settimana mi telefonò un giudice-consigliere della IV Sezione penale della Corte d’Appello, rappresentandomi le esigenze del Collegio giudicante e formalizzandomi l’incarico, che accettai. Si trattava di ascoltare, trascrivere e tradurre dal sardo all’italiano i dialoghi contenuti in una serie di intercettazioni ambientali e telefoniche a cui, strada facendo, se ne sono aggiunte delle altre ritenute dalla Corte utili ai fini del processo di revisione in corso.

Come si può interpretare un’intercettazione di un dialogo in sardo? E perché solo chi mastica la propria lingua può evitare certi errori?

Presupposto ineludibile è la competenza approfondita e certificata della lingua. Ma non basta: occorre conoscere bene la linguistica testuale e la pragmatica, cioè le regole del gioco, le prassi non codificate ma comunemente seguite in un rapporto dialogico fra due parlanti e le dinamiche di svolgimento di un dialogo fra presenti, nel caso delle intercettazioni ambientali, o per telefono, nel caso di quelle telefoniche. Ma non è ancora sufficiente. Il perito trascrittore-traduttore deve conoscere anche la cultura sottesa alla lingua e di cui la lingua è espressione. Per questo in traduttologia non si parla di semplice traduzione da una lingua all’altra, ma di traduzione da una lingua-cultura di partenza (nel nostro caso quella sarda) a una lingua-cultura di arrivo (nel nostro caso quella italiana). Per esempio, ho dovuto spiegare ai giudici e alle parti processuali particolari fenomeni come l’antifrasi (per capirci, è quel fenomeno in base al quale, dinanzi a qualcosa di inguardabile, diciamo “bellixeddu!”; di una persona che sta bene e che è sana come un pesce diciamo “sa conca ddi dolit!”, etc.), oppure assegnare di volta in volta il significato ai vari “itaddinant” e “itaddinantai”. Insomma, il trascrittore-traduttore ha il dovere di trasporre nella lingua-cultura di arrivo (l’italiano) tutte le caratteristiche e le sfumature della lingua-cultura di partenza (il sardo).

L’articolo 109 del Codice di procedura penale riconosce la nostra condizione linguistica permettendo l’utilizzo del sardo nelle nostre aule giudiziarie. Ma è una possibilità che le parti in causa sfruttano appieno durante i processi?

Tutt’altro! C’è un problema di informazione. L’articolo citato è una norma di portata enorme, come chiarito anche da diversi pronunciamenti della Suprema Corte di Cassazione sollecitati negli anni dall’avvocata oristanese Cristina Puddu. In sintesi, i sardi hanno il diritto di usare la loro lingua dinanzi agli apparati giudiziari. Ma quanti sono i sardi che hanno consapevolezza di ciò? I vari ordini forensi informano correttamente i loro assistiti di questa opportunità/possibilità? I vari apparati della Giustizia in Sardegna (Procure della Repubblica e Tribunali) dispongono del personale e dei mezzi per mettere i sardi nelle condizioni di esercitare questo diritto?

Chiaro. Ma oltre a ciò, quanto può essere difficile l’utilizzo ‘immersivo’ della lingua sarda nei dibattimenti e negli atti processuali dato che al momento non disponiamo neppure di un vocabolario giuridico e giudiziario dettagliato?

Guardi, contrariamente a quel che si può pensare, il sardo emerge in tantissimi fatti delittuosi e non solo in quelli legati al mondo delle campagne. Moltissimi dei cosiddetti reati da “colletti bianchi” vengono consumati in lingua sarda. E questo è normale in una società come quella sarda il cui repertorio linguistico è costituito da due lingue (l’italiano e il sardo, ma il discorso vale anche per le altre lingue presenti in Sardegna: il gallurese, il sassarese-turritano, l’algherese e il tabarchino) e dalle rispettive varietà. Nonostante l’uso del sardo in ambito giudiziario sia un diritto dei sardi – ignorato o misconosciuto dai più, come ho detto – la “difficoltà” per l’uso del sardo in Tribunale è più una difficoltà per l’apparato della Giustizia (si pensi al caso, non infrequente, di procedimenti in cui operano dei giudici o dei pubblici ministeri non sardi) che non per il cittadino-utente sardofono. Manca un organismo che offra ai sardi questi importanti strumenti di definizione e standardizzazione della terminologia. Penso, per esempio, al Termcat per il catalano. Io dispongo di una piccola raccolta terminologica con circa 5 mila termini e polirematiche dell’ambito giuridico-giudiziario penale, costruita lemma dopo lemma in circa 17 anni di attività in questo settore e che non escludo, prima o poi, di dare alle stampe.

Che emozioni prova ora, dopo che la verità ha trionfato di fronte all’errore che tanto tempo fa tolse la libertà al signor Beniamino?

Soprattutto in vicende come questa bisogna tener ben distinti e separati i due piani. Il perito deve aiutare i giudici e le parti processuali a capire e, talvolta, a interpretare delle espressioni utili ai fini della ricostruzione della verità. Il suo atteggiamento, quindi, deve essere analogo a quello dei giudici: oggettivo ed imparziale. Certo, nel caso di specie, sapere di aver doverosamente contribuito – nel mio piccolo – all’emersione della verità e alla liberazione – dopo 33 anni di reclusione – di un innocente, constatare che delle 535 pagine della mia relazione peritale nessuno abbia contestato una virgola, beh, una certa soddisfazione la incute. A calicuna cosa de bonu, su traballu est serbidu!

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