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EDITORIALE. Sa Limba sarda comuna vent’anni dopo, criticità e futuro per uno standard del sardo

Di Mauro Piredda
26/07/2025
in Cultura, Editoriale
Tempo di lettura: 8 minuti
EDITORIALE. Sa Limba sarda comuna vent’anni dopo, criticità e futuro per uno standard del sardo

Nel mese di aprile dell’anno venturo sa Limba sarda comuna compirà 20 anni. Per quanto mi riguarda non posso fare altro che ringraziare chi ha contribuito alla realizzazione di questo codice di scrittura che utilizzo costantemente dal 2012.

Pensai, allora, alcune cosette che mantengono la loro attualità: che non aveva alcun senso lasciare questa proposta al solo utilizzo burocratico della Regione “in uscita”; che soltanto con la scrittura quotidiana si poteva testarne il carattere sperimentale; che soltanto con il suo studio si potevano toccare con mano i punti di forza e le differenze con il proprio dialetto di partenza (e con gli altri); che soltanto con la ricerca coerente si poteva giocare con il lessico plurale della nostra lingua e con l’urgenza terminologica; che legando il tutto all’attualità e alle tecniche comunicative si poteva adattare questo codice al linguaggio narrativo (nel mio caso essenzialmente giornalistico).

Ora questa Lsc è utilizzata da singoli e collettivi con grande slancio unitario e generosità (penso a Sardware o a Assemblea natzionale sarda) e chi scrive la adopera con convinzione (anche qui su Nemesis) perché si tratta di un passo avanti nel processo linguistico necessario alla salvezza di questa principale componente della nostra identità: la lingua.

Tuttavia – sebbene non si debba ridurre il tutto alle vocali di chiusura delle parole (cosa che darebbe un’impronta settentrionale a questa proposta di standard) non si possono ignorare alcune criticità. Intorno a queste il movimento linguistico non ha trovato (o non ha voluto trovare) una sintesi. Ma è pur vero che il tema si pone e, presto o tardi, occorrerà chiudere il cerchio.

Farà prima Google a inserire il “suo” sardo nel servizio Translate di traduzione (sulla base di criteri suoi) o la Consulta indicata all’articolo 8 della legge 22 del 2018? Questa tra l’altro, in contraddizione con i tempi della stessa legge che parlava di 45 giorni dalla sua entrata in vigore, non è mai stata neppure convocata.

Che fare allora? Nulla? No, nulla no. Meglio scrivere. Scrivere tanto e perfezionare l’utilizzo del sardo scritto, dal lessico alla sintassi (vero tasto dolente). Ma nel frattempo mi chiedo: una Lsc più mediana, più “comuna”, avrebbe trovato i favori che merita oppure sarebbe stata comunque oggetto di divisione? Proviamo ad immaginarla.

“I verbi o in logudorese o in campidanese”. Ma davvero?

Si sostiene da più parti che la questione dei verbi rappresenti un grande ostacolo. In sintesi: o si sceglie un paradigma (logudorese?) o se ne sceglie un altro (campidanese?). Ma non si può pretendere che possa esistere una proposta di standard unitaria con due paradigmi verbali in alternativa (del resto alcune proposte emendatarie della Lsc che non hanno sciolto quel nodo non hanno risolto la questione, né sono state accettate a nord e a sud). Altro discorso è parlare di alcune coesistenze, come vedremo.

In ogni caso, se analizziamo il passaggio dalla precedente Lsu (Limba sarda unitaria) del 2001 alla Lsc del 2006, notiamo la trasformazione della seconda plurale: da “bois azis” a “bois ais”; da “bois sezis” a “bois seis”. Una scelta molto meridionale all’interno di un paradigma che tende (questo sì) tanto a nord. Sulla base di ciò sarebbe stato del tutto coerente trasformare anche le prime plurali: da “nois amus” a “nois aus”; da “nois semus” a “nois seus” (cosa che avrebbe facilmente aperto le porta anche al singolare “deo seo”).

A cascata avremmo potuto avere “nois cantaus”, “nois tesseus” etc. (e francamente non capisco perché abbiano optato per “bois ais” e non per “bois cantais”, per “bois seis” e non per “bois tesseis”). In ogni caso, di fronte allo specchietto seguente (limitato al presente indicativo ma comprendente gli ausiliari e le tre coniugazioni), parleremmo di logudorese, di campidanese o di altro?

Deo seo – apo – canto – bido – coso
Tue ses – as – cantas – bides – cosis
Issu / issa / isse / vostè est – at – cantat – bidet – cosit
Nois seus – aus – cantaus – bideus – coseus
Bois seis – ais – cantais – bideis – coseis
Issos / issas sunt – ant – cantant – bident – cosint

Il participio del commercio (e del ballo)

La scelta del participio passato in “adu” la ritengo tecnicamente giusta per due motivi: vi è coerenza con il femminile “ada” e stiamo a metà strada tra le varietà che perdono la -d- intervocalica (“au”) e quelle prive di lenizione consonantica (“atu”). Tuttavia nel commercio interno (e anche esterno) abbiamo tanti prodotti che sanciscono una versione tendente al campidanese e al nuorese: il pane “carasau”, il pane “gutiau”, il vino “cannonau”.

In nessun negozio della Sardegna settentrionale “logudoresofona” un cliente chiederebbe del pane “butiadu” o del vino “cannonadu”. Forse “carasadu” sì, ma sarebbe l’eccezione che conferma la regolarità dell’utilizzo di “-au” in alcuni frammenti della vita quotidiana di quanti sostengono di parlare logudorese. Per non parlare del “passu torrau”.

Ciò non avrebbe contraddetto la scelta di lasciare il plurale “-os” dal singolare “-u”. Avremmo quindi potuto avere “cantau” e “cantaos”. Anche qui: logudorese o campidanese? Vediamolo meglio con i passati prossimi.

Deo seo istau / istada – Deo apo àpiu
Tue ses istau / istada – Tue as àpiu
Issu / issa / isse / vostè est istau / istada – Iss* at àpiu
Nois seus istaos / istadas – Nois aus àpiu
Bois seis istaos / istadas – Bois ais àpiu
Issos / issas sunt istaos / istadas – Iss*s ant àpiu

Alcune coesistenze

Forse non avrebbero potuto ridurre tutto a un’unica forma. Prendiamo il caso dell’indicativo imperfetto di “àere” che nel sardo meridionale determina la costruzione del condizionale (con particella “a”) laddove nel sardo settentrionale tale condizionale è formato dalla forma contratta (inusitata direbbe Pittau) dell’imperfetto di “dèpere” più l’infinito.

Deo ia a èssere / Deo dia èssere
Tue ias a èssere / Tue dias èssere
Issu / issa / isse / vostè iat a èssere / Iss* diat èssere etc…

Avrebbero potuto optare per una forma ibrida del condizionale (Deo dia a èssere, Tue dias a èssere, Iss* diat a èssere)? Non possiamo escluderlo (così come non si può negare che tale forma esista nel parlato, sebbene spesso si sostenga che tale “a” sia una paragògica). In ogni caso avrebbero potuto sancire la coesistenza dell’imperfetto “àere” in questa forma:

Deo (a)ia
Tue (a)ias
Issu / issa / isse / vostè (a)iat
Nois (a)iaus
Bois (a)iais
Issos / issas (a)iant

Sicuramente avrebbero potuto optare per la coesistenza obbligatoria delle due forme di congiuntivo imperfetto, mettendo insieme a quelle sancite dalla commissione anche quelle meridionali, data la loro irriducibilità (un po’ come accade con lo spagnolo).

Deo essere – aere
Deo fessi – essi

Tue esseres – aeres
Tue fessis – essis

Issu / issa / isse / vostè esseret – aeret
Issu / issa / isse / vostè fessit – essit

Nois esseremus – aeremus
Nois fèssimus – èssimus

Bois essereis – aereis
Bois fèssidis – èssidis

Issos / issas esserent – aerent
Issos / issas fessint – essint

Che effetto avrebbe fatto tutto ciò?

Sarebbe stato imperativo provarci? Avremmo congiunto i sardi? Il condizionale è d’obbligo. Ma forse è proprio partendo da una costruzione più condivisa del sistema verbale che, a cascata, avremmo potuto recepire una proposta di standard più vicina all’idea della lingua sarda da introdurre a scuola (“si a iscola non che la giughides” scriva Remundu Piras) e in tutti i contesti ufficiali.

Dimenticavo, la scelta dei gerundi in “-ende” conferma la condivisione tra sardi della pronuncia aperta della vocale tonica (i locutori meridionali pronunciano “cantèndi” – come “ cantènde” – e non “canténdi”). Qui non avrebbero potuto far di meglio di quel che han fatto, a mio avviso. Stesso discorso per la “-o” (fatta qualche eccezione con la “-o-” chiusa si pronuncia “sa dòmu” come “sa dòmo”, non “sa dómu”) .

Il resto in automatico: possibilità di utilizzo combinato di “èssere” e “esser”; riduzione di “fàghere” a “fàere/faer” (con possibilità di usare “fatzo” e “fago” e poi ancora “faes”, “faet”, “faeus”, “faeis”, “faent”); far capire meglio che “limba” e “abba” non impediscono l’utilizzo di “linguìsticu” e “acuàticu”; condivisione della “x” nelle parole che da nord a sud hanno o possono aver un suono fricativo postalveolare sonoro (“rexone”, “prexone” etc.) lasciando la “j” in sola funzione semiconsonantica etc.

Tutto questo partendo comunque dal fatto che le scelte Lsc logudoresi-logudoresi non lo sono affatto: pensiamo a “frore” invece di “fiore”; a “craru” invece di “giaru”; a “ogru” invece di “oju”; ad “atzàrgiu” invece di “atarzu”; a “prenu” invece di “pienu”; a “lavra” invece di “lara”; ad “arbu” invece di “arvu”; ad “àrbore” invece di “àrvure”; a “farche” invece di “falche”; ad “artu” invece di “altu”; a “mascru” invece di “màsciu”; a “prànghere” invece di “piànghere”; a “ungra” invece di “ùngia”; a “fìgiu” invece di “fizu”; a “còrgiu” invece di “corzu”; a “bìngia” invece di “binza”; a “petza” invece di “peta” e così via.

Cosa vogliamo noi? Ite boleus?

Che alla vigilia dei 20 anni della Lsc la Sardegna viva una fase di stallo dal punto di vista delle politiche linguistiche è evidente a tutti. Tale stallo, però, non è causato dal codice del 2006: da tempo è stata infatti accantonata la sua sperimentazione ufficiale; è ridotto il suo utilizzo negli sportelli linguistici; nei bandi Imprentas non è obbligatoria; per la certificazione C1 è stata di fatto sostituita da un semplice repertorio grafematico. È colpa, quindi, della Lsc?

Questa situazione di stallo favorisce senz’altro il senso comune della prima partizione del sardo in logudorese e campidanese. E sottolineo “prima” perché si sa quando si inizia e pure come si prosegue.

Forse volere due standard (anche chiamandoli due norme dello stesso standard o utilizzando altre simpatiche formule) è la via più breve per porre fine al dibattito. Si tratterebbe di cavalcare il citato senso comune. Che però è in antitesi alla verifica scientifica dell’unicità del sardo (in Sardegna e nell’intero mondo romanzo). E che potrebbe portare a un esito che troppo facilmente ignoriamo. Due standard che convivono a livello ufficiale, ossia che entrano simultaneamente a scuola e nelle istituzioni, alla fine sono due lingue.

Sta a noi scegliere.

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