Che c’entra Vivienne Westwood, che per lui ha realizzato un’installazione artistica e lo ha appellato come un “vero punk”? O Roger Waters che ha detto senza mezze parole, come nel suo stile, “lo stanno assassinando”? Che c’entra questi grandi artisti con Julian Assange? C’entrano eccome, così come c’entrano un ex ministro dell’Interno dell’Islanda, diversi parlamentari italiani e di tutta Europa e soprattutto tanti giovani che hanno sfidato freddo, pioggia, caldo, umido di Londra, in ogni stagione dell’anno, da anni, pur di far sentire la loro vicinanza, la loro presenza a un carcerato? C’entrano come c’entra ognuno di noi.
Perché il “caso” Assange riguarda tutti. Lo si può capire già dalle prime pagine del libro “Distruggere Assange. Per farla finita con la libertà di informazione” (Castelvecchi, 2023, 254 pagine) che la giornalista Sara Chessa ha dedicato all’editore, giornalista, attivista australiano, fondatore di WikiLeaks, detenuto dall’11 aprile 2019 nelle carceri Inglesi.
Il caso Assange
Di Assange Hillary Clinton ha detto “Non possiamo semplicemente distruggere quest’uomo con un drone?”. L’esponente democratica (sic.) mostra le vere intenzioni degli Stati Uniti nei confronti di questo attivista, portate avanti senza soluzione di continuità da Obama, Trump e Biden, uniti, Repubblicani e Democratici in questa crociata contro un uomo mite ma intelligente e determinato a difendere uno dei più importanti diritti umani: quello all’informazione.
“Trasparenza per i potenti, privacy per i deboli”. Questo il motto del movimento ‘cypherpunk’ di cui Assange è uno dei più autorevoli esponenti.
Questo il motivo per cui Assange è imperdonabile e oggetto di tanto odio. Perché ha fatto ciò che non si può fare: ha reso il potere trasparente, ne ha svelato le reali intenzioni coperte da una cortina di propaganda e false informazioni. “Tutte le azioni riguardanti il diritto di altri uomini, la cui massima non si accordi con la pubblicità, sono ingiuste” ricorda Kant ne “La pace perpetua”. Cosa significhi lo spiega il filosofo Antonio Cecere, autore di una recensione superba, che inquadra benissimo la vicenda Assange nel contesto attuale e ne rivela l’attualità, anche filosofica. Infatti Cecere parafrasa Kant e spiega: “Se una decisione del governo, per essere efficace, ha bisogno di nascondere al popolo le proprie ragioni, allora questa decisione è certamente contraria all’interesse generale”.
E contrarie all’interesse generale, anche degli stessi cittadini statunitensi, lo erano le guerre in Afghanistan e Irak i cui veri obiettivi e il modus operandi con cui venivano realizzate sono stati resi noti da WikiLeaks. Ecco il motivo per cui Assange è diventato il nemico numero uno degli USA: documenti alla mano ha polverizzato la propaganda statunitense e mostrato i veri interessi del gigante americano. Piani, strategie, consegne militari, incarcerazioni arbitrarie, torture, azioni che della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e della stessa costituzione statunitense hanno fatto carta straccia.
E come reagisce chi viene trovato con le mani zuppe di marmellata? Nega, nega fino al ridicolo. E però medita vendetta.
A scanso di equivoci, Sara Chessa, bisogna precisare, è amica degli Stati Uniti. È lei stessa che lo sottolinea: “Questo concetto l’ho espresso tante volte. I peggiori amici degli Stati Uniti sono i cosiddetti ‘filoamericani’, quelli che di fronte a fatti comprovati che vedono gli USA protagonisti di violazioni gravissime dei diritti umani, pensano a trovare parole ruffiane per accarezzarne il peno. Un amico fa questo? No di certo. Un amico se ti comporti da mostro o da idiota te lo dice, ti mette in guardia, ti allarma”.
Il libro
Sara Chessa fa questo: ci allarma. Mostra, con la sua esperienza diretta, con le interviste (come quella a John Shipton, padre di Julian Assange) con i suoi incontri, con il suo peregrinare in tutta Europa, dai bordi del Circolo polare artico fino al caldo Mediterraneo, cosa rischiamo di perdere e cosa invece possiamo fare per tutelarci, per salvarci.
Novembre 2019. Sara è ad Hyde Park a Londra per andare a vedere cosa succede in una manifestazione di “Extinction Rebellion” il movimento che esprimere dissenso contro l’indifferenza del capitalismo nei confronti della crisi climatica. È qui che incontra un ragazzo silenzioso, capelli biondi e occhiali, volto serio e cartello in mano per promuovere un incontro che si sarebbe tenuto da lì a pochi giorni nella sede di un sindacato: organizzare una risposta della società civile all’arresto di Julian Assange.
Non ci pensa due volte e va a quell’incontro. Sente che la vicenda di Assange, della libertà di stampa, è sua.
Comincia inizia l’avventura, che racconta lei stessa, passo dopo passo, con le sue emozioni, le sue illusioni da indomita ottimista, le cocenti delusioni inflitte dagli eventi che però non scalfiscono una volontà di ferro ad andare avanti, assieme agli altri attivisti, fino alla liberazione di Assange.
Il libro è scritto sotto forma di diario e questo ci riporta indietro nel tempo e fa rivivere, giorno dopo giorno, non solo le emozioni di Sara ma soprattutto i mattoncini su cui nel tempo si è costruita la vicenda Assange. O, meglio, le ingiustizie di cui è vittima Assange.
E così si scopre che l’agenzia che doveva assicurare la sicurezza dell’ambasciata dell’Ecuador a Londra, dove Assange viveva dopo aver chiesto asilo politico al paese sudamericano, ha tradito i suoi committenti e passava informazioni agli americani per agevolare un rapimento di Assange, che veniva pure ascoltato mentre parlava con i propri avvocati.
O di come lo stesso Ecuador abbia ignorato la cittadinanza data allo stesso Assange e lo abbia di fatto consegnato agli Stati Uniti. O, ancora, delle contraddizioni della giudice Vanessa Baraitser e del sistema giudiziario inglese, che ritiene e tratta Assange come nemmeno oserebbe trattare il peggiore dei terroristi assassini.
Non solo una cupa cappa avvolge il cielo, le ambasciate e i tribunali di Londra. Nella capitale britannica splende anche il sole. E Sara Chessa lo sottolinea ogni volta che può. Fatti veri e metafora allo stesso tempo di un percorso fatto di ostacoli insormontabili che la tenacia degli avvocati, dei parlamentari, dei sindacati dei giornalisti che lottano per Assange rendono ogni giorno più bassi e affrontabili.
Il merito maggiore di di questa onda di affetto e militanza che avvolge e sostiene Assange la si deve agli attivisti. Donne e uomini che sin dalla prima ora non hanno mai smesso di credere, di lottare per la libertà di stampa, inventando forme nuove di lotta. Come la lettere con cui hanno inondato redazioni dei giornali per chiedere rettifiche a “sviste” e “refusi” da penna rossa, come quella tra indagato e imputato, come ogni cronista giudiziario sa bene.
Il giornalismo
Parla moltissimo anche di giornalismo questo libro. Non solo perché Assange è un giornalista e WikiLeaks è forse il miglior caso di giornalismo investigativo dall’inizio del secolo, a cui, peraltro, hanno attinto le più grandi testate internazionali. Non solo perché mostra l’importanza del giornalismo investigativo nella vita democratica di un paese e in quella di ognuno dei cittadini che lo abitano.
Questo libro parla del giornalismo come professione e la sua lettura dovrebbe essere obbligatoria in ogni corso di deontologia professionale organizzato dall’Ordine. Perché è un faro, una lampada che illumina il percorso di questo mestiere, che ha perso se stesso a causa pigrizia, malafede e rincorsa forsennata alle pubbliche relazioni e al marketing da una parte di quei professionisti, nella maggior parte dei casi tutelata da contratti solidi e da relazioni che contano. A livello locale, nazionale e perfino internazionale poco cambia: la dinamica si ripete e così i suoi effetti nefasti sulla vita democratica dei paesi.
Lo dice chiaramente Sara Chessa.
“Le sbarre della trappola erano quelle di un mondo in cui puoi limitarti a fare il cronista copiando e incollando con religiosa fiducia da un comunicato stampa. Se lo puoi fare, se hai talmente ridotto ai minimi termini questa professione da aver ‘normalizzato’ la sua trasformazione in megafono dei ‘piccoli spazi di pubblicità’ portati avanti da questa o quella istituzione, la voce della tua coscienza sarà abbastanza soffocata da non avvisarti che ti hanno trasferito dal reparto cronaca a quello marketing. Tu e il tuo lavoro diventate, per l’appunto, sbarre. Sbarre per il pubblico e per gli altri cronisti. Sbarre dietro le quali la visione dei fatti è preclusa ai tuoi lettori e alle tue lettrici, perché mentre i fatti accadevano tu dormivi o fingevi di dormire, o non avevi abbastanza alfabetizzazione umanista da cogliere le implicazioni dei dialoghi, dei temi, delle strategie politiche che sorpassano le argomentazioni legali”.
Conia e usa questa espressione bellissima Chessa: “alfabetizzazione umanista”. Cioè – sempre lei che lo spiega – “acquisire, sviluppare e alimentare nel tempo la capacità di rilevare, nei fatti che raccontiamo, ciò che è effettivamente rilevante per le comunità umane di cui siamo al servizio come giornalisti o come analisti nel campo dei diritti umani. Ed è una materia per la quale non vorrà mai pensare di aver finito di prepararmi”.
Davanti a tutto l’orrore, davanti a tutto il cinismo, restiamo umani. Una lezione da non dimenticare.