Non so se qualcuno ne abbia mai parlato, in questo caso, al netto di prenderci o di spararla grossa, lo faccio io: possiamo dire che siamo di fronte al fenomeno, tutto italiano, della producer music, ovvero album ideati, concepiti, realizzati, promossi, da questa nuova entità (mica tanto nuova, però si vive di novità), ovvero il producer.
In realtà il connubio producer e vocalist esiste da anni, tutta la scena rap, tranne rari casi, ha sempre visto questo dualismo ma se prima eravamo soliti identificare con il duo la proposta musicale oppure con il solo rapper ora invece l’attenzione si è spostata tutta sul creatore di suoni.
Pensiamo a vecchie glorie del passato italiano come Articolo 31, Sottotono, Colle der Fomento, Club Dogo, dove l’attenzione era equamente ripartita nei soggetti oppure invece dove era il rapper a farla da padrone, scegliendo di volta in volta chi gli avrebbe prodotto le basi, pensiamo a Fibra, ad esempio.
Ora no, una nuova generazione di producer, educata anche con studi classici, robusti, poi evolutasi tra Ableton, Logic e superfici varie (alzi la mano chi ha detto Dardust), riesce a prendere possesso della scena, inventare album, legarsi ad altri nomi, creare simbiosi (ma non soggetti specifici, è diverso) e porsi all’attenzione di media e pubblico come le nuove entità creative.
Negli ultimi cinque-sette anni, solo per fare degli esempi, abbiamo avuto Charlie Charles (molto legato a Tedua), il figliol prodigio Sick Luke (assolutamente indipendente ma molto legato alla DPG).
Adesso è arrivato il momento (dopo una bella gavetta di singoli famosi tra cui ‘Pamplona’) in cui un intero album, ‘OBE’ è a nome di un artista, Mace, che riunisce a sé un collettivo di assoluto rispetto della scena italiana, compone, produce, decide, ammaestra e confeziona un vero gioiellino.
Già solo ‘Colpa tua’ vale il prezzo del biglietto, con l’alternarsi del talento Venerus e di un Gue ormai proiettato al ruolo di Gangsta Crooner, ‘La canzone nostra’, in cui Salmo smette i panni del bullo, è il pezzo che potrebbe vincere Sanremo già adesso, senza nemmeno far fare la fatica a qualcuno di riproporre i soliti pezzi stantii in un calderone stantio.
Potrei continuare così per ogni pezzo sempre con definizioni nuove ma ci tengo a dire che Mace riesce a mescolare in un album, che a volte tratteggia quasi un mixtape (secondo la nuova accezione e non quella ortodossa) per il grado di variazioni affrontate, un Noyz che torna a rappare quasi come se fosse nel ‘Ministero dell’Inferno’, Side che ritorna ai livelli del 2018, Colapesce che in un falsetto ispiratissimo ci tramanda esperienze trascendentali in ‘Ayahuasca’ (d’altronde OBE = Out Of Body Experience).
Abbiamo Gemitaiz sempre più meravigliosamente roco, Geolier ai livelli di un Luchè, momenti strumentali in cui avvertiamo la presenza quasi dei Soulwax, riff che potrebbero andar bene a Lana del Rey, Ketama che per la prima volta nella mia vita diventa ascoltabile, forse a causa degli Psicologi e di quel sentore di Righeira, Joan Thiele che si conferma Musa deliziosa insieme al talento (già detto?) Venerus in una ‘Senza fiato’ che ricorda vagamente una versione ultra rallentata di ‘Sugar’ di Robin Schultz.
Potrei continuare per ore se non fosse che preferisco tornare a pigiar play sullo schermo del mio iPhone, ma non posso staccarmi senza menzionare Carl Brave, Rkomi e le grandi glorie Fritz da Cat in ‘Scostumato’, con il fenomeno J.Lord e ‘Dio non è sordo’, con la combo Jake (La Furia e The Smoker) ed Izi.
Finalmente un autotune non abusato, finalmente una varietà di suoni, influenze, generazioni che si confrontano, featuring che non sono buttati nel calderone senza logica ma solo richieste delle case discografiche.
Ormai ci siamo, chiudiamo trasognati con l’onirica ‘Hallucination’ e dichiariamo Mace il Re Mida di questa scena.
Perché? Perché OBE per ora è album italiano dell’anno (e tra i più ascoltati al mondo in streaming) e sarà difficilissimo detronizzarlo.
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